Genderless: una rivoluzione che nasce dalla tuta
Lo sapevate che il primo capo no-gender è stato proprio la tuta? Presa in prestito dal guardaroba dell’uomo, dopo la Prima guerra mondiale la donna aveva bisogno di potersi finalmente muovere liberamente.
Facciamo subito chiarezza sul significato della parola “genderless“, che tradotto in italiano è letteralmente “senza genere“. Questa parola viene prevalentemente utilizzata nel campo della moda per indicare quei capi che non sono riconducibili ad un’identità di genere precisa.
Genderless: è rivoluzione dalla tuta di Thayath
Una grande rivoluzione nella storia della moda è avvenuta con la Prima guerra mondiale, che mutò radicalmente l’abbigliamento femminile e portò alla luce un nuovo indumento che in quegli anni ebbe degli sviluppi insperati: la tuta. Proposta nel 1920 da Thayath e considerato l’indumento precursore della moda genderless, era un capo intero composto da camicia e pantaloni, abbottonato sul davanti e trattenuto da una cintura. Non si trattava di un’invenzione, difatti questo tipo di vestito era già in uso come capo di biancheria, da lavoro e da aviatore. L’innovazione della sua proposta fu infatti quella di sostituire con essa l’intero guardaroba: «La tuta è adatta per ogni occasione e tutte le stagioni. Per lo sport, per il lavoro, come abito da sera, per dormire, per la città, per la campagna, per la montagna, per la spiaggia per l’automobile, per viaggiare, per cacciare, per i giorni di scuola e di vacanza, per la fattoria, la fabbrica, l’ospedale e il laboratorio ecc. ecc.». Sebbene la versione maschile fu presto dimenticata, la tuta femminile ebbe un grande successo, essendo pienamente coerente con il modo di vestire che le donne avevano adottato dopo la Prima guerra mondiale. Era questo il momento storico perfetto per rivoluzionare il sistema sartoriale tradizionale per creare un modo di vestire totalmente diverso da quello dei secoli precedenti. Le donne gridavano a gran voce abiti comodi per muoversi, lavorare, ballare, guidare l’automobile, fare sport. Dalla guerra erano uscite con tailleur maschili, perché proprio questo volevano urlare al mondo: di voler partecipare alla vita pubblica, così come per gli uomini era scontato che ne prendessero parte, di volere pari diritti e pari opportunità.
Negli anni ‘60 e ‘70, ispirandosi alla moda unisex di couturier avveniristici come Pierre Cardin e André Courrèges, le donne alla moda iniziano a indossare i pantaloni. Grazie alla rivoluzione sessuale e all’emancipazione le donne entrano a far parte in via definitiva della forza lavoro, prendendo in prestito l’abbigliamento maschile. Un gigante della moda del XX secolo, il couturier francese Yves Saint Laurent, muovendosi abilmente tra lo street style e la tradizione dell’Haute Couture, rivoluzionò il guardaroba femminile, rendendo popolari i pantaloni per la donna e promuovendo la moda prêt-à-porter. Negli anni ‘60 sconcertò il pubblico con “Le smoking”, un abito da sera unisex, e con i pantaloni, che divennero un punto fermo dell’abbigliamento quotidiano femminile, con varianti quali i pantaloni alla zuava e le culotte. Continuò poi creando modelli androgini per ogni stagione.
Quelli che le donne avevano cominciato ad indossare non erano vestiti funzionali esclusivamente per la comodità che rappresentavano rispetto ai secolari abiti tradizionali, ma erano forma dell’identità in cui loro stesse si sentivano rappresentate. Qual è l’accezione che possiamo dare al termine “funzionale” in relazione alla moda se non quella totalitaria in quanto funzionale a se stessi come individuo? Nel corso dei secoli si è arrivati all’idea di una moda che sia comoda per il progresso, che si sottrae dall’etichetta e dai vincoli conservatori. Quando si potrà, allo stesso modo, arrivare ad una moda che si sottrae dai pregiudizi di genere dovuti alla visione binaria del nostro mondo? Il ventunesimo secolo rappresenta, certamente, per questa divisione binaria, il fulcro dello sconvolgimento verso una visione fluida del nostro genere.
Una visione che abbraccia la possibilità di separare il sesso assegnato (così come è stato “interpretato” alla nascita) e l’espressione di genere, ovvero il modo in cui comunichi il tuo genere. È proprio questo l’obiettivo di cui si fa promotore l’abbigliamento no gender: uno spirito iconoclasta che supera i confini limitanti del pregiudizio di genere e salvaguardia l’individuo nella sua più nuda essenza.